Andy is Back (a Napoli)

Andy is Back

A Napoli in mostra uno degli artisti più influenti del XX secolo. Andy Warhol is back! Il Re della PopArt dal 16 Aprile al PAN (Palazzo delle Arti di Napoli) una mostra unica, con 130 opere, prodotta da Navigare srl e curata da Edoardo Falcioni per Art Motors con il patrocinio del Comune di Napoli, che propone un’esposizione ricca di disegni, oggetti autografati, serigrafie, fotografie, provenienti da collezioni private, oltre alla ricostruzione della celebre Silver Factory newyorkese.

Foto di Alessio Romaniello

La Mostra al PAN

Un percorso suddiviso in aree tematiche per approfondire l’intensa attività del poliedrico padre della Pop Art in diversi ambiti: dall’arte alla moda, dalla musica al cinema, dalla fotografia all’editoria. L’esposizione ricreerà le atmosfere degli anni ’50, ’60, ’70 e ’80, tracciando la storia delle intuizioni e dei progetti dell’artista, anticipatore di importanti fenomeni culturali e artistici e di cui, 35 anni dopo la sua morte, è ancora forte l’eco.

Accanto a serigrafie, litografie, copertine di riviste e vinili, oggetti di culto autografati e fotografie, mai o raramente esposte al pubblico prima di questa mostra, Andy is back presenterà anche la ricostruzione in dimensioni reali della celebre Silver Factory. Era questo, infatti, il cuore pulsante della vita e del percorso artistico di Warhol, attorno al quale, nella New York negli anni ’60, gravitarono tantissimi personaggi dello star system, della moda, artisti, musicisti, attori entrati poi nel mito.

La mostra vuole essere, sin dal titolo, anche un omaggio al passionale rapporto che legò l’artista americano alla città di Napoli in cui torna e dove, grazie alla collaborazione con il gallerista Lucio Amelio, soggiornò in diverse occasioni cogliendone l’energia esuberante e traboccante, pienamente raffigurata nella celebre produzione di dipinti e serigrafie dedicata al Vesuvio, realizzata negli anni ’80.

Foto di Alessio Romaniello

La Pop art è per tutti: dalla moda alla pubblicità

“Non saprei dire che cosa sia la Pop Art: è troppo complicato; significa semplicemente prendere l’esterno e metterlo all’interno o
prendere l’interno e metterlo all’esterno, portarsi a casa gli oggetti quotidiani. La Pop Art è per tutti. Non credo che l’arte debba
essere solo per pochi eletti, credo che debba essere per la massa del popolo americano, che di solito, comunque, accoglie bene
l’arte. Penso che la Pop Art sia una forma d’arte legittima quanto qualunque altra”

Ancora prima di artisti come Jeff Koons o Damien Hirst, Andy Warhol si rivelò un luminare nel comprendere per primo la possibilità di trasformarsi in una vera e propria star; per questo motivo, la sua immagine pubblica era studiata nei minimi dettagli, e quello che contava era essenzialmente la sua identità visiva distintiva.

Da questo aspetto è facile desumere il forte legame che l’artista instaurò dai suoi esordi con il mondo della moda: da giovane, negli anni ’50, ha creato illustrazioni per Vogue e Harper’s Bazaar. In seguito, ha stretto amicizia e ritratto i più famosi designer tra cui Diane von Furstenberg, Giorgio Armani, Gianni Versace, Valentino, Yves Saint Laurent e Halston. Per quest’ultimo, con cui strinse un rapporto di sincera amicizia, realizzò anche un’importante campagna artistico-pubblicitaria e varie locandine offset su carta, oggi considerate un perfetto esempio di connubio tra arte e moda.

Il poster svolge principalmente la funzione di comunicare mediante la forza di una immagine, e fu per questo motivo che Andy
Warhol si appropriò facilmente di questo mezzo commerciale, elevandolo a supporto artistico di prim’ordine. Brillante erede di Henri de Toulouse-Lautrec, maestro dell’arte dei poster e inventore dell’estetica dei poster moderni, l’artista americano offrì a questo mondo un enorme contributo mediante il suo utilizzo della serializzazione, della ripetizione incessante di immagini e della grande capacità di utilizzo del colore (raramente ne utilizzava più di tre, eccezion fatta per quelli di Halston): il confine tra
arte e consumismo fu così del tutto superato.

Foto di Alessio Romaniello

Andy Warhol

Foto © Galleria d’Arte Maggiore g.a.m.

Su Andy Warhol al giorno d’oggi è stato detto tutto o quasi; sono stati approfonditi e interpretati molteplici aspetti psicologici in relazione alla sua produzione artistica. Conosciuto dai più come uno dei padri fondatori della Pop Art, Warhol è stato molto di più: in circa quarant’anni di carriera artistica egli ha saputo innovare con la sua rivoluzionaria semplicità comunicativa, figlia del marketing del secondo ‘900, non soltanto la storia dell’arte, ma anche tutti i campi adiacenti ad essa: dalla moda alla musica, dall’editoria al mondo dello star-system, dalla cinematografia al mondo dell’intrattenimento.

Da questi presupposti nasce l’Andy Warhol dalla parrucca argentata che tutti conosciamo e vediamo nei suoi molteplici aspetti di artista, produttore cinematografico, fondatore del magazine “Interview” collaboratore e amico delle più importanti star musicali. A questo punto gli stessi vip iniziano a frequentare l’ambiente della Factory per avere un proprio ritratto da lui realizzato, divenuto un vero e proprio status-symbol. Warhol si ritrova allo stesso tempo travolto da una intensa mondanità, una società amplia ma allo stesso tempo circoscritta in ambienti e club elitari, sfarzosi, alla moda come lo Studio 54, il locale del “momento” di New York dove nascono amicizie e opportunità, gestito dagli imprenditori lan Schrager e Steve Rubell. Sono moltissime le immagini che immortalano nel club un “libero” Andy insieme a Vip e amici come Liza Minnelli, Debbie Harry, Paloma Picasso, Truman Capote, Bianca Jagger, per citarne solo alcuni. La mostra in questo senso mira a ricostruire in maniera del tutto inedita non soltanto il percorso artistico di Warhol, ma anche tutta l’atmosfera storico-culturale nella quale l’artista ha operato divenendo testimone e protagonista indiscusso del 1900. L’esposizione comprende circa 130 opere e ambisce a ricostruire il percorso storico-professionale dell’artista in relazione ai numerosissimi settori in cui si è cimentato: quando il giovane Andrew Warhola approda nella dinamica New York City nel 1949 è ancora un perfetto sconosciuto in cerca di una opportunità; inizia così a collaborare con diverse riviste di moda come Glamour svolgendo il ruolo di illustratore di scarpe e accessori e, allo stesso tempo, disegna le copertine di album musicali e libri, inaugurando così la sua carriera come un grande artista commerciale. Gli anni ’60 si apriranno con il tentativo di Andy Warhol di avvicinarsi per la prima volta al mondo della pittura, che dal 1960 al 1964 si troverà completamente spiazzato e rivoluzionato dal suo modus operandi: in mostra saranno presenti nume- rose opere appartenenti a questo momento storico, uno dei più prolifici dell’artista, a partire dalle prime icone pop, come la Campbell’s Soup, i Flowers e i volti noti del cinema e dello spettacolo come Marilyn Monroe o Liz Taylor. Nella seconda metà degli anni ’60, dopo aver deciso momentaneamente di abbandonare la pittura, Warhol si dedicherà a tempo pieno al cinema e alla musica, diventando per esempio il manager del gruppo “The Velvet Underground” e dimostrando che un’artista può essere allo stesso tempo anche un abile uomo d’affari. Amplio e “sonoro” spazio sarà dedicato ai rapporti con il mondo musicale: in mostra saranno presenti le più importanti e famose cover firmate, tra cui alcune di intramontabile successo come la celebre “banana sbucciabile” in The Velvet Underground e Nico del 1967 e i mitici “jeans incernierati” in Sticky Fingers dei Rolling Stones nel 1971 integrate con alcune rare chitarre autografate dagli artisti con cui Warhol collaborò. L’esposizione sarà integrata con le polaroids dall’artista, che fungono come dei veri e propri studi preparatori: se per i maestri della pittura rinascimentale il disegno rappresentava lo studio preparatorio di un quadro, per Warhol sarà la polaroid scattata con la sua macchina fotografica Big Short ad adempiere a questo importantissimo ruolo. Tra le Polaroid storiche presenti in mostra: lo studio preparatorio per l’album Sticky Fingers (considerata oggi come la copertina musicale più celebre al mondo), lo studio per l’album Love You Live (con scatti di Mick Jagger e Ron Wood), il ritratto di Grace Jones riprodotto sulla cover del celebre catalogo realizzato da “Taschen”, l’immagine figurante la Principessa Carolina di Monaco utilizzata per realizzare la cover di ‘Vogue”, oltre ai ritratti di noti, cantanti, modelli e stars, fino ad arrivare, per passare a un altro ambito importantissimo rivoluzionato dall’artista, ai ritratti di tutti i più importanti stilisti del momento: Giorgio Armani, Gianni Versace, Valentino Garavani e tanti altri. Sarà indagato a fondo il rapporto tra la moda e la rivoluzione circa l’utilizzo di nuovi supporti artistici: le T-Shirts, simbolo di un prodotto estremamente pop, diverranno dei supporti al pari di una tela o di una carta, e l’artista le utilizzerà per serigrafarci sopra i volti di personaggi del calibro di Joseph Beuys e Keith Haring o per riprenderci sopra altri suoi celebri soggetti.

Le icone della rivoluzione Pop

“NON C’È NIENTE IN ARTE CHE TUTTI NON SIANO IN GRADO DI CAPIRE”

Dalla Rivoluzione Francese, momento storico in cui per la prima volta il terzo stato ha iniziato ad affermarsi non soltanto sulla scena politica, ma anche su quella sociale e culturale, la borghesia ha progressivamente avuto l’opportunità di vedere quelli che erano i propri ideali rappresentati nell’arte, sempre meno influenzata dal gusto aristocratico che l’aveva caratterizzata per secoli.

Questa fenomenologia culturale, che affonda le sue radici nella Rivoluzione del 1789, ha raggiunto l’apice della sua massima espressione con un’altra rivoluzione: quella della Pop Art, movimento artistico nato in America nei primi anni ’60. Il termine
“Pop”, che deriva dall’inglese “popular”, lascia bene intendere che si tratta di un’arte accessibile a tutti non tanto dal punto di vista economico (le opere di Andy Warhol possono spaziare dalle migliaia di euro sino ad arrivare ai 105.445.000 $ dell’opera “Silver Car Crash (Double Disaster)” del 1963, venduta da Sotheby’s a New York nel 2013), quanto da quello concettuale.

Coerentemente alla lezione di Pasolini, il “potere consumistico”, divenuto l’unico capace di imporre la propria volontà nella società post-bellica, è stato affiancato da una concezione edonistica della vita, per laquale, e questo è evidente nell’opera di Warhol, il piacere può essere provocato da oggetti divenuti indispensabili per il consumatore e addirittura “di culto” per la forza del messaggio che hanno saputo evocare in un determinato contesto storico, nonostante la loro appartenete ed innocua semplicità. Ecco che la lattina di zuppa Campbell’s Soup si eleva da semplice prodotto di massa a potente simbolo di rappresentanza del popolo americano nella sua interezza, e l’immagine di Marilyn Monroe diviene una vera e propria icona popolare da adorare, al pari di un simbolo religioso.

La rivoluzione warholiana non si è però limitato solo ad innovare ciò che veniva rappresentato sulla tela, ma è arrivata a modernizzare completamente persino il modo stesso di fare arte, ossia la tecnica con cui venivano realizzate le opere.

La ripetizione e la rielaborazione delle immagini di beni di consumo industriale e di icone ha infatti comportato l’adozione di tecniche di serializzazione, che resero così Warhol più simile ad una macchina piuttosto che ad un artista, coerentemente a quello che era uno dei suoi principali desideri:

“LA RAGIONE PER CUI DIPINGO IN QUESTO MODO È CHE VOGLIO ESSERE UNA MACCHINA. TUTTO
QUELLO CHE FACCIO, COME UNA MACCHINA, È CIÒ CHE VOGLIO FARE”

Fotografia e serigrafia, le due componenti principali dell’inedito modus operandi, divennero in tal modo un unicum, trasformandosi nella traduzione artistica della serialità tipica della produzione industriale.

Questa tecnica all’avanguardia, il quale consisteva sostanzialmente in un processo semi-meccanizzato che facilitava enormemente la realizzazione delle opere e riduceva notevolmente i tempi di produzione, non venne accolto in maniera benevola dall’establishment artistico dell’epoca: inizialmente, la filosofia del giovane Andrew Warhola, autentico nome dell’artista, era vista infatti quasi come una provocazione all’Espressionismo Astratto, movimento allora preponderante negli USA (Jasper Johns, che era già andato ben oltre l’insegnamento degli espressionisti astratti ed era considerato già estremamente innovativo per la sua epoca, si era rifiutato in principio di condividere la scena artistica con Andy Warhol).

“COMPRARE È PIÙ AMERICANO DI PENSARE ED IO SONO AMERICANO COME QUALSIASI ALTRO”

La tecnica della serigrafia, tanto criticata quanto rivoluzionaria, venne utilizzata da colui che venne additato in maniera sarcastica come “Andy il pubblicitario” già nel 1962 per realizzare la serie Campbell’s Soup Cans, composta da trentadue piccole tele di identiche dimensioni raffiguranti ciascuna gli iconici barattoli di zuppa Campbell’s: nonostante il giudizio severo della critica, che bollò le opere come “piatte e provocatorie”, fu con quella mostra, organizzata alla Ferus Gallery di Los Angeles, che Andy Warhol entrò nella storia dell’arte moderna.

È stato proprio il processo di democraticizzazione messo in atto dall’artista, che rappresentò su tela i principali simboli consumistici della società, ad averlo reso uno degli artisti più rappresentativi del secondo ‘900: aderendo alla cultura di massa e facendola entrare nel mondo concettuale dell’arte figurativa, egli ha saputo elogiare, come nessuno aveva mai fatto, gli Stati Uniti d’America, patria d’eccellenza del consumismo, e tutto ciò che hanno simboleggiato dall’immediato dopo-guerra sino agli anni ’80.

L’artista del business

Foto di Alessio Romaniello | Andy is Back | PAN

Tutta l’attività creativa di Warhol ha finito per confluire in un unico corpus, tenuto insieme da una inedita visione dell’arte, quella della Business art: egli non voleva più essere l’artista Andy Warhol, bensì l’artista-imprenditore a capo della Andy Warhol Enterprises.

Con la sua personale filosofia da investitore, che consisteva nell’impiegare inizialmente piccole somme di denaro per poi arrivare ad investire sempre di più, gradualmente, man mano che il business cresceva, Warhol iniziò a dirigere negli anni “60 i suoi primi film, per divenire in seguito anche un vero e proprio produttore; successivamente, affidò la regia dei suoi lungometraggi
a Paul Morissey.

Le sperimentazioni artistico-imprenditoriali andarono poi a toccare molti altri settori, soprattutto quelli della musica e dell’editoria.

Durante gli anni della Silver Factory, Andy divenne il manager e il produttore della banda rock The Velvet Underground, alla quale introdusse e fece aggiungere nel 1966 la cantante e modella tedesca Nico. Dopo aver realizzato per il gruppo la celebre cover con la banana, Warhol ne realizzò tante altre, tra le quali la più celebre è senza dubbio quella dell’album Sticky Fingers dei The Rolling Stones, considerata ancora oggi come la cover più famosa dell’intera storia musicale moderna.

Altrettanto importante per la carriera imprenditoriale dell’artista è la fondazione nel 1969 del magazine Interview: si tratta del “prototipo” della rivista di costume odierna, satura di celebrità e di gossip. Grazie al suo nuovo giornale alla moda, la gente iniziò a considerare Andy come un visionario, dal momento che metteva in copertina, oltre ai volti del momento, anche personaggi semi-sconosciuti che sarebbero divenuti molto famosi soltanto in seguito. Il design delle sue copertine, visibilmente warholiano, lo portò a realizzare le cover di altri importanti riviste, tra cui Time e Playboy.

Il grande genio anticipatore arrivò negli anni ’80 a trasformarsi in un vero e proprio marchio di fabbrica e in una desideratissima pop-star: i suoi fans facevano lunghe file per farsi firmare dal loro idolo lattine di zuppa Campbell’s, fotografie, poster, riviste, banconote… qualsiasi genere di cosa, una volta firmata dal re della Pop Art, finiva per diventare arte. Si era avverato così uno dei suoi tanti desideri: da artista commerciale, Andy Warhol era divenuto il primo vero grande Business Artist.

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